Bioplastiche e nuovi materiali

Riposto nel seguito una bozza di un articolo sulle bioplastiche e i nuovi materiali ecologici che avevo scritto 2 anni fa. Non più aggiornatissimo, ma forse a qualcosa serve e non era ancora su internet.


Negli anni ’70 per la prima volta ci fu qualcuno che iniziò a chiedersi se il destino di noi tutti non sarebbe stato quello di finire sepolti dai rifiuti. Mentre la nuova civiltà dei consumi si stava affermando vigorosamente, un imprevisto esercito di merci obsolete cominciava a sua volta a strabordare dalle discariche, come invadente sottoprodotto di un nuovo stile di vita. Da allora sino ad oggi, le discaricare continuano a non reggere la colossale e variegata armata di rifiuti che si ostina ad accumularsi ovunque, inquinando e rifiutandosi di biodegradare.
Sono i materiali sintetici, le plastiche in primo luogo, i protagonisti incontrastati del nuovo fenomeno. Oggi, l’unica strada che verosimilmente ci rimane per superare questo problema è quella di rimpiazzare progressivamente le materie di sintesi più insidiose con nuovi materiali analoghi, ma ecologici. La parola che il mondo della ricerca usa per indicare questo problema è “sostituzione”: tanto più saremo in grado di sostituire i materiali di origine petrolchimica con materiali naturali e riciclati, tanto prima la spunteremo in questa guerra per la sostenibilità.
Detta così può anche sembrare che liberarsi dei vari PVC, Kevlar, Teflon, Nylon e via dicendo, sia un affar facile, se non fosse che i polimeri sintetici non solo sono onnipresenti, ma hanno anche indubbi pregi a cui non è facile rinunciare. Quale che sia la composizione molecolare, i polimeri rimangono quasi sempre estremamente economici, mentre le caratteristiche che possono assumere sono quasi infinite. Di norma sono estremamente leggeri e possono essere sia morbidi che estremamente duri, oppure spugnosi, colorati o trasparenti, isolanti ma anche traspiranti, ignifughi e isolanti, con la resistenza e la tenacia come caratteristica che li accomuna tutti.
Questo non significa però che il fronte della ricerca sui nuovi materiali ecologici abbia gettato la spugna di fronte ad un avversario tanto ostile, e molti sono anzi i risultati incoraggianti. Una delle innovazioni più promettenti già oggi disponibile, ad esempio, è quella dell’ormai famoso Mater-Bi, la bioplastica che deriva dall’amido di mais o di patate, un brevetto fra l’altro italiano.
Di casi eccellenti ce sono molti altri, ma a dirla tutta il termometro che misura la speranza di superare la petrolchimica registra ancora temperature piuttosto freddine. Già confrontando il primato assoluto dei materiali sintetici con il tasso d’espansione dei loro sostituti ecologici, si capisce che siamo ancora nel campo dell’auspicabile, piuttosto che dell’imminente. Almeno nel breve e medio periodo. Il professor Aldo Priola, docente al Politecnico di Torino e polimerista di lungo corso, conferma: «i materiali sintetici hanno un loro settore di impiego con dei vantaggi certi; i processi industriali sono già stati messi a punto da tempo e hanno una loro collocazione che si può ritenere stabile, legata tanto al rapporto costo benefici, quanto alle loro caratteristiche particolari. Nel prossimo futuro continueranno ad avere un forte peso». Eppure verrebbe da obbiettare che la furibonda corsa in avanti del prezzo del greggio potrebbe far aumentare i costi delle plastiche, stimolando in tal modo la ricerca e l’economia di nuovi sostituti, un po’ come succede per le fonti energetiche alternative, ma non è questo il caso. «Di tutto l’output petrolifero globale annuo, la frazione che si trasforma in plastica non supera mai il 3-5% – spiega ancora Priola – : troppo poco per far lievitare i costi del ciclo produttivo».

Nuovi e riciclati

In attesa che i meccanismi di mercato rendano svantaggioso l’uso del petrolio per creare polimeri, l’unica altra porta a cui bussare è quella della politica. E, seppur timidamente, specialmente in Europa, qualcosa si sta muovendo in questo senso. Direttive comunitari come la WEEE (2002/96/CE), che obbligano i produttori a prendersi carico dello smaltimento delle merci una volta giunte a fine vita, o ancora le diverse iniziative legislative in favore degli acquisti pubblici verdi e del riciclaggio delle plastiche, stanno favorendo la nascita di tutta una serie di inediti materiali riciclati.
Droptec, Durat, Ecoallene, Isolmix, EcoSpun, Ecomat: sono solo alcuni dei nuovi materiali che prendono vita dal riciclaggio post-consumo di altri prodotti plastici, soprattutto polietilene, poliestere e polipropilene. Gli impieghi più tipici sono nei campi dell’edilizia, dell’arredamento e del tessile. Isolmix, ad esempio, è un fonoassorbente per pavimenti con caratteristiche migliori della maggior parte dei suoi analoghi non riciclati; il Durat viene impiegato per costruire mobili da ufficio ed è a sua volta riciclabile; il Droptec è invece un ottimo impermeabilizzante, completamente privo di CFC. Fra tutti, l’Ecomat è forse il più ingegnoso. Si tratta di un pannello con caratteristiche simili a quelle del legno e si ottiene a partire dai noccioli olive che avanzano dopo la spremitura facendo una miscela con una parte di polietilene. Il beneficio ambientale è notevole perché permette di riciclare gli scarti della spremitura, che altrimenti finirebbero dritti in discarica ed inoltre i pannelli prodotti sono a loro volta riciclabili.
Fra i fiancheggiatori di questi materiali, il designer Marco Cappellini è sicuramente uno dei più attivi in Italia, tanto che nel 2002 ha dato anche vita alla prima banca dati sui nuovi materiali ecologici ( HYPERLINK “http://www.matrec.it” http://www.matrec.it). Cappellini non si reputa, per così dire, un ambientalista militante, ma quando cura un progetto si prende a cuore l’intero ciclo di vita del prodotto. «Nel campo del design – spiega Cappellini -, siccome il materiale riciclato ha una sua identità precisa, per questo con il nostro studio stiamo sviluppando dei prodotti che sfruttino al massimo le caratteristiche proprie del riciclato e soprattutto le texture per dare una nuova identità al prodotto». Un problema ricorrente è infatti quello di superare l’ostacolo psicologico per cui chi acquista associa mentalmente cioè che riciclato a ciò che è scadente e vecchio. «La sfida è quella di formare un binomio che unisca il concetto di bello a quello di riciclato», spiega Cappellini. «Per un discorso di sostenibilità generale il design è importante – continua il designer -, e fin ora i materiali da riciclo non sono stati ancora adeguatamente considerati, ma le cose stanno cambiando. Con le nuove direttive europee quando un designer progetta una lavatrice ad esempio, deve trovare il modo di riciclarne le componenti al 70-80 per cento, magari inventandosi delle stampelle per indumenti a partire dalle parti in plastica, un’idea che è già stata sviluppata».

Si può fare di più

Certo, dare una seconda vita alla plastica è sicuramente una pratica virtuosa, ma, a voler essere rigorosi, i nuovi materiali riciclati sopra descritti non rientrano ancora nel campo della sostenibilità in senso stretto. Il polipropilene, ad esempio, può essere riciclato due o tre volte, ma dopo finirà comunque in discarica.
Il materiale ecologico ideale invece, non solo deve essere sempre riciclabile, ma deve anche essere prodotto a partire da una risorsa rinnovabile e inoltre deve essere capace di biodegradare completamente.
Bioplastiche di origine naturale, come il già citato Mater-Bi, rispondono quasi completamente questi requisiti. Sono serviti 10 anni studi e 50 milioni di euro di investimenti all’azienda Novarese Novamont per realizzare questo granulato lavorabile con tecniche comuni, ma biodegradabile in pochi mesi. Un’altra bioplastica simile è l’acido polilattico, nota come PLA, questa volta brevettata dalla multinazionale Cargill. Come il Mater-Bi viene ottenuta a partire dal mais, distinguendosi da questo per la possibilità di essere trasparante e più tenace, con lo svantaggio di essere più rigida. Anche in questo caso la biodegradazione è garantita.
Ma se la chimica verde è già a portata di mano perché non abbiamo ancora dato un calcio al vecchio barile di petrolio? In primis, perchè le bioplastiche ancora non competono economicamente con quelle tradizionali, anche se uno studio dimostra che il PLA con una produzione di 120-150 mila tonnellate/anno potrebbe raggiungere la fascia di prezzo delle plastiche convenzionali. Detto altrimenti significa che non è ancora stata sostenuta una politica efficace che renda possibili delle economie di scala. In secondo luogo le bioplastiche hanno ancora un campo applicativo ristretto. Il Mater Bi per ora funziona bene come plastica da imballaggio e sacchetti, per prodotti igienici d’uso quotidiano, articoli usa e getta per la ristorazione. Infine perché, una porzione dei biopolimeri è ancora di origine fossile, nel Mater-Bi questa frazione varia dal 30 al 60 per cento. Per raggiungere l’emancipazione dagli idrocarburi servono dunque altre ricerche. La Novamont non si tira indietro: «Nonostante il nostro fatturato non superi il 35 milioni di euro – spiega Andrea Di Stefano, responsabile delle attività istituzionali della Novamont – ne investiamo il 10 per cento in ricerca. Nello specifico stiamo aprendo un nuovo stabilimento pilota ed entro i prossimi 4-5 anni, dovremmo arrivare a produrre biopolimeri con il 70 per cento di fonte rinnovabile in media, con punte del 100 per cento».
Tutto sommato le prospettive per le ecoplastiche sembrano dunque abbastanza solide, e il fatto che il mercato cresca del 25 per cento all’anno rafforza questa sensazione. Se invece la si vuole vedere da una prospettiva pessimistica, basti pensare che il mercato dei biopolimeri per ora copre appena 0,1 per cento di quello complessivo.

Un limbo degradabile

Fra i virtuosi polimeri naturali e i dignitosi nuovi materiali riciclati, esiste infine un limbo controverso: quello dei polimeri sintetici degradabili. Queste strane molecole suscitano sentimenti contrapposti: secondo alcuni è una soluzione eccezionale, altri invece preferirebbero non sentirne nemmeno parlare. Vediamo intanto di che si tratta. All’inizio degli anni ’90 si è iniziato a capire che era possibile prendere un polietilene ordinario, come quello comunemente usato per le buste della spesa, ed accorciarne drasticamente la catena molecolare, attraverso un processo detto reingegnerizzazione, e aggiungendo un additivo particolare. La riduzione delle dimensioni dei polimeri fa si che questi diventino appetibile per i microrganismi decompositori, come funghi e batteri, che mai riuscirebbero a digerire le macromolecole dei polimeri artificiali creati nelle industrie. «Questo processo rende la decomposizione della plastica “programmabile” nel tempo – spiega Emo Chiellini, docente di chimica industriale all’Università di Pisa -. I materiali prodotti in questo modo non risultano tossici in alcun modo e sono validi per applicazioni usa e getta, come buste per la spesa, ad esempio, e per vari impieghi agricoli come la pacciamatura».
E proprio le buste della spesa prodotte con polimeri degradabili sono state al centro di una recente polemica in Italia fra alcuni ambientalisti e la catena di distribuzione Coop. Nel giugno scorso Coop ha, infatti, annunciato l’introduzione di un nuovo shopper sintetico di questo tipo che si degrada completamente in ambiente nel giro di tre anni. Legambiente e Greenpeace hanno immediatamente protestato contro l’iniziativa, giudicando lo shopper non ecologico e gli additivi che contiene «pericolosi». Meglio sarebbe stato, secondo le associazioni, usare buste realmente biodegradabili che avrebbero incentivato anche la raccolta differenziata. Coop invece ha ribadito che si è trattato di una scelta cosciente, perché la nuova busta non si rivolge al mercato del compostaggio, ma vuole assecondare l’abitudine dei consumatori che in maggioranza riusano le buste diverse volte per fare la spesa, fino a quando non la utilizzano un ultima volta come sacco per la spazzatura. L’idea di Coop è che anche togliendo i sacchi di plastica dal supermercato aumenterebbero comunque le vendite dei sacchi per la nettezza e quindi sono preferibili gli shopper degradabili.
In altre parole: un compromesso. Ma sulla strada che porta alla chimica verde non è il primo e probabilmente non sarà l’ultimo. E per chi vuole evitare il dilemma, un consiglio, ci sono sempre le vecchie buste in cotone in casa, da qualche parte.

4 pensieri su “Bioplastiche e nuovi materiali

  1. Riflettendo su un articolo sui biocarburanti in USA che stanno sottraendo risorse alimentari importanti non e’ che queste bioplastiche affameranno il mondo?
    Non e’ meglio ritornare ai vecchi shoppers di stoffa alle botttiglie in vetro ,al cartone ed ad un piu razionale utilizzo dei materiali attualmente esistenti?

  2. Sicuramente e’ controversa come questione. Pero’ considera che anche il cotone viene dai campi. Poi ce’ da dire che la produzione di bioplastiche è molto meno impattante in termini di necessità di spazi della produzione di biocombustibili.

    Altro discorso, fondamentale, come dici tu, è quello di ridurre al minimo tutti gli usi inutili delle plastiche, sia bio che petrolchimiche.

    a presto!

  3. Una soluzione a queste problematiche viene data dall’ additivo ECM MasterBatch Pellets, realizzato dalla ECM Biofilms inc., e commercializzato dalla Italcom. Tale additivo, è un copolimero di etilenvinil acetato con ingredienti additivi di colloidi Organolettici-Organici coltivati, e fibra naturale, che combinato ad una percentuale minima dell’1% alle resine plastiche tradizionali destinate al contatto con gli alimenti ( Polietilene, Polipropilene, PET,PVC, etc) , permette di ottenere imballaggi per alimenti completamente biodegradabili con le stesse proprietà degli imballaggi tradizionali:
    • Resistenza agli oli e grassi
    • Resistenza alle alte temperature;
    • Resistenza allo “stress cracking”;
    • Non sono idrosolubili;
    • Resistenza meccanica;
    • Conformi alla normativa ‘’Nuove regole sull’igiene degli imballaggi in plastica per alimenti’’;
    Grazie all’ utilizzo dell’ECM MasterBatch Pellets si ottengono con molta semplicità diversi prodotti, completamente biodegradabili, destinati al settore alimentare.

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